Negli ultimi anni la parola resilienza è ovunque: nei titoli dei giornali, nei discorsi motivazionali, persino nei consigli spicci per affrontare la vita quotidiana. “Bisogna essere resilienti” è diventato un mantra. Ma davvero basta la resilienza psicologica per superare un trauma?

Come psicoterapeuti, ci troviamo spesso di fronte a pazienti che arrivano in studio dicendo: “Non capisco perché non ce la faccio, forse non sono abbastanza resiliente”. La convinzione è che se non riescono a stare meglio, il problema stia nella loro forza interiore. In realtà, le cose sono molto più complesse.

Che cos’è davvero la resilienza psicologica

Il termine resilienza nasce in fisica: indica la capacità di un materiale di tornare alla sua forma originaria dopo un urto. Trasferito alla psicologia, è diventato sinonimo di “forza d’animo”, “capacità di resistere”, “tenacia”.

Ma qui sta il primo equivoco. Una persona che vive un trauma non può semplicemente “tornare com’era prima”. Il trauma lascia un segno, modifica lo sguardo su di sé e sul mondo. Parlare di resilienza psicologica come ritorno allo stato iniziale rischia di essere fuorviante: dopo certe esperienze non si torna indietro, si può solo andare avanti.

Il mito della resilienza: quando diventa una trappola

Il problema non è la resilienza in sé, ma il modo in cui la usiamo culturalmente. Dire a qualcuno che deve “essere resiliente” può diventare un modo implicito per dirgli: “se stai male, la colpa è tua”.

Questa logica si intreccia con la cultura della performance: bisogna sempre resistere, rialzarsi, dimostrare forza. Ma così facendo, il dolore viene negato, e la persona si sente doppiamente sola: ferita e colpevole di esserlo.

È lo stesso meccanismo che spesso osserviamo nei vissuti di senso di colpa e vergogna legati al trauma (ne abbiamo parlato in questo articolo di Ilaria Rusignuolo ). Oppure nelle critiche mosse alla psicoterapia con EMDR come “tecnica fredda e impersonale”, quando in realtà il cuore del lavoro è la relazione (cfr. “Terapia per il trauma: efficacia, critiche e benefici reali” di Oriana Piangoloni ).

Resilienza psicologica e trauma: cosa dice la clinica

Quando una persona ha vissuto un trauma, il problema non è la mancanza di forza di volontà. Sono i meccanismi neurobiologici stessi che rimangono bloccati.

La teoria dell’Elaborazione Adattiva dell’Informazione (AIP) ci dice che la mente tende naturalmente a guarire. Ma se l’esperienza è troppo intensa o dolorosa, il processo si interrompe. I ricordi restano “congelati”, pronti a riattivarsi con la stessa intensità di allora.

Ricordo il caso di un paziente che continuava a rimproverarsi: “Non riesco a lasciarmi alle spalle quello che è successo, dovrei essere più resiliente”. La verità era che non gli mancava la resilienza psicologica: gli mancava uno spazio sicuro in cui poter elaborare quel materiale congelato.

Oltre la resilienza: la crescita post-traumatica

La resilienza psicologica, se intesa come “resistere e tornare come prima”, è insufficiente. La vera sfida, dopo un trauma, non è resistere, ma trasformare.

In psicologia si parla di crescita post-traumatica: la possibilità che, una volta elaborato il dolore, emergano nuove risorse. Non significa che il trauma diventi “positivo”, né che smetta di far male. Significa che quel dolore può essere integrato nella propria storia senza più dominarla, liberando energie nuove per vivere con maggiore autenticità.

Ne abbiamo parlato anche in questo articolo di Matteo Marini: uscire dal trauma non significa dimenticare, ma trasformarlo.

Il ruolo della psicoterapia e dell’EMDR

Ed è qui che la psicoterapia gioca un ruolo decisivo. L’EMDR, ad esempio, lavora proprio sullo sblocco dei ricordi traumatici. Attraverso la stimolazione bilaterale, aiuta il cervello a “ricollocare” le memorie traumatiche, riducendone l’impatto emotivo e favorendo l’integrazione con il resto della storia di vita.

La resilienza psicologica, da sola, non basta. Non è una prova di forza individuale, ma un processo che prende forma all’interno di una relazione terapeutica sicura, fatta di fiducia, empatia e contenimento.
In questo senso, più che pensare alla resilienza come al semplice “resistere”, può essere utile evocare il concetto di antifragilità: la capacità non solo di reggere l’urto, ma di trasformarsi e rafforzarsi proprio attraverso le difficoltà.

Ed è importante sottolineare che questa trasformazione non è immediata. Richiede tempo, cura e soprattutto relazioni significative che possano sostenere il percorso. Non basta la volontà individuale: serve un contesto che accolga, riconosca e dia spazio alla complessità del vissuto traumatico.

Conclusioni

La resilienza psicologica non è una bacchetta magica. Non è il “segreto” per far sparire il dolore, né un dovere a cui sottoporsi.

Dopo un trauma, non serve “tornare come prima”. Serve piuttosto trovare il modo di andare avanti, integrando le ferite nella propria storia senza che diventino catene.

La vera forza non sta nel resistere sempre, ma nel permettersi di chiedere aiuto. Perché non siamo fatti per affrontare tutto da soli, e perché la resilienza, quella vera, nasce e cresce dentro le relazioni.