Ci sono momenti, nella vita come nella terapia, in cui ciò che fa soffrire non è un evento preciso, ma qualcosa di più sottile: la sensazione di muoversi su un terreno che non si lascia afferrare. A volte una relazione può diventare un luogo in cui ci si sente senza appigli, come se ogni passo richiedesse uno sforzo interpretativo continuo. In questo scenario entrano in gioco due dimensioni diverse, spesso confuse l’una con l’altra: ambivalenza e ambiguità. Due parole simili, ma due esperienze molto differenti.
Ambiguità e ambivalenza nelle relazioni sono due fenomeni sottili ma potenti che possono destabilizzarci profondamente, soprattutto quando agiscono come trigger emotivi, richiamando esperienze passate o schemi interiorizzati. Vediamoli distintamente.
L’ambiguità si manifesta quando i segnali nella relazione sono poco chiari o contraddittori.
Per esempio, una persona può mostrare vicinanza e interesse in alcuni momenti e poi allontanarsi senza spiegazioni. Questa incertezza crea confusione emotiva, poiché il cervello cerca di interpretare e prevedere comportamenti che restano indefiniti. Come trigger, l’ambiguità può risvegliare paure di abbandono o insicurezza, specie se in passato abbiamo vissuto situazioni in cui l’amore o l’attenzione non erano coerenti.
L’ambivalenza riguarda la presenza simultanea di sentimenti opposti verso la stessa persona o situazione, come amare e temere, desiderare vicinanza ma avere paura dell’intimità.
Questo crea una tensione interna: vogliamo qualcosa ma ne temiamo le conseguenze. Come trigger, l’ambivalenza può far emergere conflitti interiori irrisolti, spingendo a oscillare tra avvicinamento e ritiro, spesso senza rendercene pienamente conto. È un’esperienza che può risvegliare ferite antiche, soprattutto quando la storia personale è segnata da figure di riferimento imprevedibili, calde e fredde a seconda del momento.
L’ambiguità nasce da ciò che l’altro non dice chiaramente. È una comunicazione opaca, sfuggente, che lascia aperte troppe possibilità di lettura. E allora chi ascolta riempie gli spazi vuoti con ciò che conosce di sé: paure, sospetti, desiderio di essere rassicurato. E più ancora dell’ambivalenza, l’ambiguità costringe a un lavoro sotterraneo: decifrare l’intenzione dell’altro senza avere mai una conferma, come cercare di leggere un testo scritto con inchiostro troppo pallido.
Questa opacità relazionale affonda le radici nelle prime esperienze emotive: adulti che dicevano una cosa e ne comunicavano un’altra, gesti non allineati alle parole, stati affettivi trattenuti o espressi a metà. È una forma di confusione sottile che non lascia ferite evidenti, ma orienta profondamente il modo in cui ci si muove nel mondo.
Ricordo Marta, 35 anni, che arriva in terapia raccontando di una collega che la mette continuamente in difficoltà. Non ci sono conflitti espliciti né episodi apertamente ostili, eppure ogni interazione con lei la fa sentire sotto osservazione. Ascoltando il suo racconto emergono due livelli distinti: nei giorni buoni la collega appare cordiale, collaborativa, quasi affettuosa; in altri momenti diventa distante, essenziale, sfuggente. Non esiste alcuna spiegazione chiara, nessun segnale che permetta a Marta di capire cosa stia succedendo. Ogni oscillazione si trasforma così in un enigma emotivo: “Ho sbagliato io? È successo qualcosa? Cosa devo aspettarmi?”
Oltre a questi cambiamenti, c’è anche un linguaggio ambiguo: una mail che potrebbe contenere una critica, una frase forse ironica, forse no, un sorriso che non dice davvero nulla. Marta si muove come in una stanza poco illuminata, costretta a interpretare continuamente ciò che l’altra non esplicita.
In seduta emergono ricordi di una madre affettivamente instabile: a volte presente, coinvolgente, bisognosa di contatto; altre volte improvvisamente distante proprio nei momenti in cui Marta avrebbe avuto più bisogno di essere contenuta. Una madre che non spiegava, non chiariva, non rendeva leggibile la propria emotività. Di fronte alla collega, Marta non sta solo cercando di decifrare un comportamento attuale: sta cercando di non ritrovarsi intrappolata nella ferita antica di una relazione incoerente.
Il lavoro terapeutico diventa generativo quando permette di dare forma a ciò che appare indistinto. In questi casi il processo si muove su più livelli:
- Dare un nome alle cose
Distinguere l’ambivalenza dall’ambiguità, riconoscere ciò che appartiene all’altro e ciò che appartiene al proprio mondo interno, permette alla persona di orientarsi. Le parole diventano strumenti di significazione.
- Sostare nei vissuti
La confusione non è solo cognitiva: tocca timori profondi, come il rifiuto, la perdita, la paura di deludere. Collegare queste emozioni alle esperienze precoci aiuta a comprenderle e a integrarle.
- Offrire un nuovo tipo di relazione
La stanza di terapia diventa un luogo in cui il messaggio è chiaro e stabile, i confini sono leggibili, la relazione non oscilla senza motivo. È un’esperienza riparativa che costruisce, nel tempo, una sicurezza interna più solida.
- Coltivare la mentalizzazione
Invece di riempire ogni silenzio con l’ipotesi più minacciosa, si impara a tollerare ciò che non è immediatamente comprensibile. La mente torna a essere curiosa, non solo difesa.
- Regolare le emozioni
Quando l’ambiguità riattiva ansia, vergogna o ipervigilanza, si sviluppano nuovi modi per riconoscere e modulare tali stati, senza colpevolizzarsi.
- Confini e autodifesa
Fa parte del percorso anche imparare a riconoscere quando una relazione è troppo opaca per essere sostenibile, e come proteggersi senza sentirsi in colpa.
Quando si integra l’EMDR si trasforma l’esperienza alla radice.
Nel lavoro con Marta, l’EMDR offre un ulteriore livello di profondità. La collega non rappresenta solo una figura ambigua: diventa un trigger che riattiva i vissuti legati all’imprevedibilità materna. L’alternanza affettiva, il non detto, l’incertezza costante risvegliano la stessa ipervigilanza che Marta aveva imparato da bambina per sopravvivere a una relazione affettiva incoerente. Con l’EMDR non si lavora solo sulla comprensione, ma direttamente sulle reti mnestiche che mantengono vivo quel pattern. Si identificano i ricordi target: episodi in cui la madre era incongruente, momenti confusi, situazioni in cui Marta si percepiva responsabile dell’umore altrui. Durante la desensibilizzazione, tali esperienze possono finalmente essere elaborate con risorse nuove, restituendo responsabilità agli adulti di allora, sciogliendo l’auto-colpa e recuperando un senso di agency.
La percezione dell’ambiguità attuale cambia proprio perché cambia la posizione interna da cui Marta la osserva. Parallelamente, il lavoro sulle risorse – la modulazione dell’arousal, tolleranza dell’incertezza, capacità di restare nella prospettiva adulta — amplia la finestra di tolleranza emotiva. La relazione terapeutica rimane una base sicura, una presenza coerente che permette alla mente di lasciare andare ciò che un tempo era necessario per proteggersi.
Dopo l’elaborazione, Marta non interpreta più ogni oscillazione come un segnale di pericolo. La collega rimane forse ambigua, ma non minacciosa. La chiarezza interna genera un nuovo modo di vivere la relazione esterna.
In definitiva, la psicoterapia — soprattutto quando integra EMDR — diventa un lavoro che trasforma la confusione in comprensione, e il passato in risorsa, restituendo alla persona la possibilità di non smarrirsi. In fondo, ciò che cura è la chiarezza e la psicoterapia non elimina l’opacità del mondo, ma offre un luogo in cui imparare a starci dentro senza smarrirsi. Un luogo dove i confini si possono vedere, il linguaggio è comprensibile e il senso delle relazioni non va più cercato nel buio.
Nel caso che ci arrivi ambiguità e ambivalenza da parte del partner questo ha effetti sulla sicurezza emotiva. La qualità dei legami affettivi adulti si costruisce attraverso la coerenza, la prevedibilità e la capacità di comunicare gli stati interni. Quando il partner oscilla tra vicinanza e distanza, oppure invia segnali incongruenti, l’intero sistema di attaccamento dell’altro entra in uno stato di attivazione che può diventare cronico. In questa dinamica, le teorie dell’attaccamento di Bowlby e le successive elaborazioni di Liotti offrono una cornice essenziale per comprendere come e perché l’ambiguità e l’ambivalenza relazionale diventino così destabilizzanti.
Secondo Bowlby, il bisogno di una base sicura rappresenta un principio fondante dello sviluppo psicoaffettivo. Gli esseri umani cercano relazioni caratterizzate da coerenza, accessibilità emotiva e continuità. Quando questi elementi mancano, il sistema di attaccamento si attiva con comportamenti di ricerca, controllo e iperinterpretazione. L’ambiguità comunicativa — dire una cosa e farne un’altra, evitare chiarimenti, esprimere mezze intenzioni — genera un ambiente imprevedibile che erode progressivamente la fiducia. La persona che la subisce può sviluppare:
- ipersensibilità ai segnali del partner;
- costante anticipazione di possibili distanze;
- vissuti di autosvalutazione (“sto sbagliando qualcosa”);
- tentativi di tenere insieme il legame a costo della propria stabilità emotiva.
Ciò accade perché l’ambiguità minaccia la funzione primaria del legame: offrire sicurezza. Quando la base non è sicura, il sistema affettivo si mobilita, talvolta fino a forme di ansia cronica. L’ambivalenza del partner — avvicinarsi e ritrarsi, mostrare affetto e poi irrigidirsi — riproduce un contesto simile a quello delle figure di attaccamento incoerenti dell’infanzia.
In questi casi, chi vive la relazione tende a sviluppare:
- ipervigilanza (monitoraggio costante dell’altro per ridurre l’imprevedibilità);
- attribuzione di colpa su di sé come tentativo di mantenere controllo;
- dipendenza dal “momento buono”, che funziona come rinforzo intermittente;
- stati di confusione o collasso emotivo quando l’altro cambia direzione.
Liotti sottolinea che l’attaccamento adulto può riattivare configurazioni relazionali arcaiche, nelle quali la persona sacrifica il proprio equilibrio interno pur di mantenere il legame. Non si tratta di fragilità, ma di strategie apprese in contesti in cui la coerenza non era garantita. Quando il partner è ambiguo o ambivalente, la mente preferisce attribuire a sé la causa dell’instabilità, perché la colpa dà l’illusione del controllo. Se il problema sono io, posso migliorare. Se il problema è l’altro, sono impotente.
La storia affettiva personale modella il modo di leggere la relazione.
Penso a Luca, 42 anni, che arriva in terapia convinto di essere “sempre sbagliato”. La partner alterna momenti di grande affetto a fasi di distanza irritabile. Ogni cambiamento dell’umore dell’altro diventa per lui motivo di autoaccusa. Il lavoro clinico porta alla luce una storia segnata da una madre depressa: talvolta presente, altrove emotivamente irraggiungibile. Il suo sistema di attaccamento si è così strutturato attorno a un modello in cui la vicinanza non è mai garantita. Liotti aiuterebbe a comprendere la sofferenza attuale come l’attivazione di strategie di controllo basate sulla colpa, un tempo necessarie per mantenere un minimo senso di connessione.
Riconoscere che l’instabilità non proviene da lui, ma dalla dinamica relazionale e dalle sue radici evolutive, genera sollievo e apre uno spazio interno di ricostruzione. Il lavoro psicoterapeutico può articolarsi in più direzioni, integrando la prospettiva EMDR:
- Distinguere la storia personale dal contributo del partner
Si aiuta il paziente a differenziare ciò che appartiene all’altro da ciò che deriva dai propri modelli interni di attaccamento. Con l’EMDR è possibile individuare le memorie target in cui si è formato il nesso “l’incoerenza dell’altro dipende da me”, facilitando una rielaborazione più profonda e meno colpevolizzante.
- Legittimare i vissuti e offrire un’esperienza di prevedibilità
Molte persone non riconoscono il proprio dolore perché non è mai stato riconosciuto. L’alleanza terapeutica stabile costituisce una base sicura; i protocolli EMDR consentono di rafforzarla attraverso la rielaborazione delle memorie di trascuratezza o imprevedibilità affettiva, permettendo al Sé adulto di differenziarsi dalla vulnerabilità del Sé bambino.
- 3. Regolare l’ansia relazionale
La mentalizzazione, la consapevolezza corporea e il lavoro di integrazione emotiva vengono potenziati dall’EMDR, che facilita la desensibilizzazione degli stimoli relazionali percepiti come minacciosi. Le attivazioni del sistema di attaccamento legate all’incoerenza dell’altro tendono così a ridursi, permettendo risposte più centrate e meno reattive.
- Rafforzare confini e senso di sé
L’obiettivo è sostenere l’autostima, chiarire i limiti personali e favorire la capacità di chiedere, nominare ed esprimere i propri bisogni. L’EMDR lavora direttamente sulle credenze negative nucleari (“Non valgo”, “È colpa mia”, “Devo controllare tutto”) facilitandone la trasformazione in credenze più funzionali e coerenti con l’esperienza adulta.
- Integrare nuove letture senza colludere
L’ambivalenza del partner può essere espressione di paura dell’intimità, modelli evitanti o disorganizzati, difficoltà a riconoscere i propri bisogni. La psicoterapia aiuta a osservare queste dinamiche senza giustificare e senza colpevolizzarsi. L’EMDR favorisce questo processo intervenendo sui trigger che riattivano antiche mappe relazionali, rendendo più chiara la distinzione tra passato e presente.
- Promuovere scelte consapevoli
L’obiettivo non è orientare verso la permanenza o la separazione, ma accompagnare la persona verso una posizione interna più stabile. Quando le memorie traumatiche vengono rielaborate, il paziente può scegliere in base al proprio benessere, non più sotto la pressione della paura o della colpa.
Conclusione
Le dinamiche di ambiguità e ambivalenza nelle relazioni attivano profondamente il sistema di attaccamento e possono riaprire ferite antiche. Bowlby ci ricorda quanto la coerenza sia essenziale per la sicurezza emotiva; Liotti mostra come l’imprevedibilità possa riaccendere strategie di controllo e vissuti di confusione nati in relazioni primarie incoerenti. La psicoterapia diventa allora il luogo dove riconoscere questi movimenti, integrarli e costruire un senso di sé capace di stare in relazioni in cui la chiarezza, la reciprocità e la prevedibilità non sono privilegi, ma prerequisiti di un legame sano. mbiguità e ambivalenza non sono semplicemente modalità relazionali complesse: per molte persone rappresentano veri e propri trigger, capaci di riattivare reti emotive antiche. Quando la storia affettiva è segnata da figure di riferimento incoerenti, imprevedibili o poco leggibili, ogni sfumatura non chiara del presente può risvegliare un allarme profondo. Non è la collega ambigua in sé a ferire, ma ciò che evoca: la sensazione di non sapere mai veramente “come andrà”, l’ansia di dover decodificare gli altri per non perderli, la paura di essere stati — o di essere ancora — la causa di quel cambiamento improvviso nell’altro. L’ambiguità diventa così un richiamo del passato, un ponte involontario che collega l’adulto di oggi al bambino che cercava sicurezza in una relazione instabile. L’EMDR, insieme al lavoro psicoterapeutico più ampio, permette di sciogliere proprio questo legame traumatico: non cancellando l’ambiguità del mondo, ma restituendo alla persona la capacità di distinguerla dal passato, di non esserne sovrastata, di restare centrata anche quando l’altro è opaco. Quando le reti traumatiche si integrano, l’ambiguità non diventa più una minaccia e l’ambivalenza dell’altro non si trasforma automaticamente in colpa, vergogna o ipervigilanza. Ciò che un tempo era un trigger diventa un segnale tra tanti, osservabile e affrontabile senza smarrirsi. È qui che emerge una nuova libertà interna: poter restare se stessi, anche quando l’altro non è trasparente.
Bibliografia
Bowlby, J. (1969/1988). Attachment and Loss. Vol. 1–3. London: Hogarth Press.
Bowlby, J. (1988). A Secure Base. New York: Basic Books.
Liotti, G. (2001). Le opere della mente. Milano: Raffaello Cortina.
Liotti, G. & Farina, B. (2011). Sviluppi traumatici. Milano: Raffaello Cortina.
Liotti, G. (2014). L’evoluzione delle relazioni di attaccamento. Milano: Raffaello Cortina.
Mikulincer, M., & Shaver, P. R. (2016). Attachment in Adulthood. New York: Guilford Press.
Fonagy, P., Gergely, G., Jurist, E., & Target, M. (2002). Affect Regulation, Mentalization, and the Development of the Self. New York: Other Press.
Safran, J. D., & Muran, J. C. (2000). Negotiating the Therapeutic Alliance. New York: Guilford Press.

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