Nella relazione terapeutica, come nella vita quotidiana, spesso capita di parlare degli altri per riuscire, inconsciamente, a parlare di sé. Dietro una critica, un giudizio, un racconto apparentemente oggettivo sull’altro, può nascondersi un bisogno più profondo: quello di riconoscere e dare voce a parti di sé difficili da accettare o integrare. Questo fenomeno prende il nome di identificazione proiettiva, un meccanismo di difesa tra i più complessi e sottili, che spesso si manifesta in modo poco evidente ma molto incisivo.
Cos’è l’identificazione proiettiva?
L’identificazione proiettiva è un meccanismo psicologico attraverso il quale una persona proietta su un’altra emozioni, pensieri o tratti di sé che fatica a riconoscere o accettare. Ma non si limita alla proiezione semplice: coinvolge anche un’interazione relazionale in cui l’altro, spesso inconsapevolmente, viene indotto a comportarsi secondo le aspettative o i bisogni inconsci di chi proietta.
Questo meccanismo si osserva frequentemente nei setting terapeutici, ma è presente anche nelle dinamiche quotidiane. In terapia, può ostacolare il processo di consapevolezza se non viene riconosciuto e accolto con delicatezza. Per questo è fondamentale parlarne, capirne le dinamiche e saperlo affrontare.
Parlare dell’altro per evitare di guardarsi dentro
Un paziente racconta con rabbia del collega “manipolatore” che cerca sempre di controllare gli altri. Si lamenta della sua invadenza e della sua mancanza di rispetto. Con il tempo, emerge che questo stesso paziente tende ad assumere il controllo nelle sue relazioni, decidendo spesso anche per gli altri, pur definendolo come un “prendersi cura”. L’immagine del collega manipolatore diventa allora uno specchio, un riflesso di tratti che il paziente non riesce ancora a riconoscere in sé.
Questo è un chiaro esempio di identificazione proiettiva: un contenuto psichico difficile da integrare viene “messo fuori”, sull’altro, e poi combattuto. Ma in realtà il conflitto è interno.
Giustificare le proprie scelte attraverso gli altri
Un’altra forma comune di identificazione proiettiva è quella che si manifesta nel bisogno di cercare conferme esterne alle proprie scelte. Pensiamo a chi ha preso una decisione complessa, magari una separazione o un cambio radicale di vita, ma non ne è del tutto convinto. Parlandone con amici cerca di “portarli dalla sua parte”, spingendoli inconsciamente a fare scelte simili.
È come se l’altro dovesse diventare una prova vivente che la decisione presa è quella giusta. Così facendo, si rafforza una narrativa rassicurante, ma si perde di vista la possibilità di un confronto autentico con i propri vissuti, con le proprie insicurezze e con il dubbio.
Anche in questo caso, è l’identificazione proiettiva a operare in profondità: si tende a fare in modo che l’altro incarni e agisca ciò che noi abbiamo vissuto, trasformandolo in un “doppio” a conferma della nostra scelta.
Quando il terapeuta rischia di cadere nella trappola
Non solo i pazienti, ma anche i terapeuti possono essere coinvolti nel meccanismo dell’identificazione proiettiva. Un terapeuta che non ha elaborato alcune sue parti, ad esempio il bisogno di controllo, potrebbe sentirsi attratto dall’idea di “guidare” il paziente verso soluzioni che ritiene più adeguate, perdendo di vista il processo interno del paziente stesso.
Ad esempio, un terapeuta reduce da una propria esperienza di rottura relazionale può, senza rendersene conto, indirizzare il paziente a “lasciare” una relazione difficile, convinto che quella sia la scelta più sana. Ma quella direttività, anziché facilitare, rischia di sovrapporsi al processo dell’altro, riducendone l’autonomia.
Questo accade quando l’identificazione proiettiva agisce anche nel terapeuta, portandolo a utilizzare il setting per elaborare, in modo inconscio, propri nodi irrisolti.
L’importanza della supervisione clinica
Per prevenire queste dinamiche, la supervisione clinica è uno strumento essenziale. Offre uno spazio protetto e non giudicante in cui il terapeuta può esplorare i propri vissuti, riconoscere eventuali identificazioni proiettive in atto e ritrovare una posizione di congruenza interna.
Attraverso la supervisione, il terapeuta può accorgersi di quando un proprio vissuto personale sta interferendo nel processo del paziente, e imparare a distinguere ciò che appartiene a sé da ciò che appartiene all’altro.
In questo modo, si tutela la qualità della relazione terapeutica, si mantiene un ruolo di facilitazione e si promuove una reale autonomia del paziente nel proprio percorso di sviluppo personale.
Riconoscere per trasformare
Riconoscere l’identificazione proiettiva non è semplice, né per il paziente né per il terapeuta. Richiede un lavoro continuo di ascolto empatico e sospensione del giudizio.
Ma quando viene riconosciuta, apre uno spazio potente di trasformazione. Permette di riprendersi parti di sé proiettate fuori, di reintegrarle in modo più consapevole e funzionale. E soprattutto, restituisce all’altro la libertà di essere sé stesso, senza dover incarnare bisogni o fantasmi che non gli appartengono.
Verso una maggiore autenticità
Parlare dell’altro per parlare di sé è una dinamica profondamente umana. Tutti, a volte, proiettiamo. Ma se impariamo a cogliere quando questo accade, possiamo fare un passo in più verso l’autenticità.
Nel percorso terapeutico, riconoscere l’identificazione proiettiva significa creare le condizioni per un dialogo più vero con sé e con l’altro. Significa imparare a nominare ciò che sentiamo, anche quando è scomodo, anche quando ci spaventa.
E significa, soprattutto, accettare che siamo fatti di molte parti: alcune luminose, altre più oscure. Ma tutte preziose, se viste, ascoltate e integrate.
Conclusioni
L’identificazione proiettiva è un meccanismo potente, che agisce in profondità e può condizionare le nostre relazioni, le nostre scelte e anche il modo in cui ci raccontiamo. Riconoscerlo è un atto di coraggio e di responsabilità, che permette di recuperare autenticità, consapevolezza e libertà interiore.
Per il terapeuta, lavorare sulla propria congruenza interna e affidarsi alla supervisione clinica è fondamentale per non cadere in dinamiche direttive che rischiano di interferire con il processo del paziente. Solo così è possibile mantenere uno spazio terapeutico davvero trasformativo. In definitiva, imparare a parlare di sé senza bisogno di usare l’altro come schermo è una conquista preziosa: perché ci permette di essere davvero presenti, in contatto con noi stessi e con gli altri. E, infine, di crescere.